Ecco perché ho amato questo libro di Cognetti, che oltre ad essere scritto meravigliosamente, mi ricorda quel periodo di poche preoccupazioni e molti sogni.
I genitori di Pietro amano la montagna, anzi, la portano dentro come un tratto distintivo, come un neo o una vertigine nei capelli; così Pietro inizia a trascorrere le sue estati a Grana, un piccolo paesino sperduto tra i monti, dove conosce Bruno, un ragazzino della sua età che diventa suo amico, il suo migliore amico.
Seguendo il loro rapporto, il lettore cresce con i due protagonisti, che inevitabilmente fanno vite diverse, scelte anche opposte, ma riescono sempre a mantenere uniti i loro spiriti, come se un filo invisibile li legasse dal primo giorno di giochi vicino al torrente. Entrambi hanno rapporti complicati con i loro padri, come spesso accade, e questo segnerà i loro percorsi in modi diversi, avvicinandoli ancora di più e spingendoli a prendersi cura l’uno dell’altro come fratelli per scelta.
Il terzo protagonista è la montagna, gigantesca, forte, pericolosa, vibrante di vita, che nasconde segreti ed è in grado di ristabilire l’equilibrio che spesso Pietro e Bruno cercano nella pace dei suoi sentieri.
Paolo Cognetti ha scritto innanzitutto un libro bello, che non si può fare a meno di leggere ed amare pagina dopo pagina; ogni parola è scelta con cura e rispetto per il lettore e soprattutto per la storia e l’ambientazione, ed è per questo che, avendo vissuto la montagna con un misto di amore ed odio, mi ha emozionata particolarmente.
VOTO 30 FERMATE: Questa storia va assaporata, richiede il giusto tempo, nonostante la scrittura risulti molto scorrevole. Poterla leggere in funivia forse sarebbe la scelta migliore.
CITAZIONE: “Ero esausto e mi stavo accomodando nel calore del vino, e anche se non l’avrei ammesso mi piaceva sentirlo parlare così. C’era qualcosa di assoluto, in Bruno, che mi aveva sempre affascinato. Qualcosa di integro e puro che fin da quando eravamo ragazzini ammiravo in lui. E lì per lì, nella casetta che avevamo costruito, ero quasi disposto a credere che avesse ragione: che il modo giusto di vivere per lui fosse quello, da solo nel pieno dell’inverno, senza niente se non un po’ di cibo, le sue mani e i suoi pensieri, anche se sarebbe stato disumano per chiunque altro.”
Flavia Capone