Spero che già conosciate Pierangelo Bertoli! Se non lo conoscete, rimediate al più presto. Rimarrete affascinati da quest’uomo in carrozzella (a dieci mesi fu colpito dalla poliomielite), che ha tutto il diritto di lamentarsi per il suo stato. Ma non lo fa. Apparteneva alla razza dei cantautori impegnati, quelli che descrivono la realtà per leggerne il futuro. Dure furono le critiche contro lo Stato e la religione cattolica. Soffrì molto la fase cantautoriale del riflusso e del disimpegno sorta negli anni ’80. Il successo però arriva grazie alla partecipazione a Sanremo nel 1991 e 1992, con pezzi che comunque non esulano dal suo repertorio.
Il vuoto artistico lasciato dal sassolese è stato riconosciuto troppo tardi. Molti cantautori gli rendono omaggio ora che non c’è più, perché solo ora ci si rende conto di quanto la sua musica fosse sincera, i suoi testi duri ma coerenti: semplicemente trasmetteva verità. Non pochi sono i pezzi cantati in dialetto, sia per omaggiare la sua terra sia perché era la lingua che usava con gli amici, quella che usava per rimanere se stesso. Si può dire che questo sia stato lo scopo della sua lunga carriera: rimanere uguale a se stesso nonostante tutto, nonostante tutti.
VOTO 10 FERMATE: è un semplice dialogo, con domande dirette e risposte altrettanto precise, di quelli che sentite tutti i giorni in metro. Dategli uno sguardo perché davvero dura quanto un singolo viaggio. L’amicizia tra Dieci e Bertoli è il filo conduttore dell’intervista. Un ritratto sincero per rivalutare la figura umana del cantautore, prima delle sue canzoni.
CITAZIONE: – “Italia d’oro” è un pezzo molto duro, molto politico, è una invettiva contro la corruzione, contro il malcostume delle tangenti, della finta lotta alla mafia, eccetera. C’è quel verso, «delle tangenti e dei boss tutti liberi», che non era fatto per essere apprezzato molto, in un Bel Paese ancora democristiano.
– Guarda, tanto di cappello alla visione di Angelo! “Italia d’oro” è una canzone profetica, sta per esplodere lo scandalo di Mani Pulite, siamo all’alba, a febbraio del 1992, della grande inchiesta di Antonio Di Pietro e della Procura di Milano, che ebbe le conseguenze ben note.
Libero Iaquinto