Mario Fillioley è un insegnante, uno di quelli coinvolti e colpiti da questa opera di migrazione collettiva che porta (genialmente, oserei dire) un professore di Siracusa a dover accettare un incarico in Umbria; che passa da un istituto professionale ad una scuola media, diversa per età degli alunni ma anche per contesto e posizione sociale. Ma in fondo gli alunni sono sempre uguali, ad ogni latitudine, così come immutato è il rapporto amore-odio che possono avere con i loro insegnanti.
Il prof. “meridionale” ci racconta la vita scolastica da insegnante e ricorda anche quando era lui l’alunno, alternando passato e presente e ricostruendo le differenze tra due epoche che sembrano lontane anni luce ma che per alcuni aspetti restano tali e quali: oggi come allora per esempio come negare che l’unico obiettivo di una gita sia quello di sedersi all’ultima fila sul pullman?
Lo stile è semplice, chiaro ma elegante, colloquiale al punto giusto da coinvolgere il lettore e annullare la distanza, e tanto tanto divertente.
Si ride tanto durante questa lettura, perché ci si sente coinvolti e simili, da adulti vicini al prof. e da bambini tra i banchi della classe, a urlare tormentoni molesti e spernacchiare in un flauto bavoso (diciamolo: quale livello di untuosità potevano raggiungere quei flauti?).
L’insegnante è stato a sua volta alunno e ragazzino: Fillioley riesce a mantenere bene questo doppio filo di narrazione, con continui riferimenti al fatto che l’essere professori dipende anche da come si è stati alunni.
E si riflette: sulle difficoltà di alcuni ragazzi che andrebbero seguiti e purtroppo spesso vengono abbandonati dalla stessa istituzione che dovrebbe esserne responsabile, sulle diversità e i pregiudizi che ancora abitano questo bel paese; soprattutto su quanto quegli anni siano fondamentali, su quanto possano formare gli adulti che saremo e sull’importanza di quella splendida figura mitologica, metà creatura urlante metà penna segna-note, che è l’insegnante.
VOTO 10 FERMATE: Questo libro scorre come l’acqua; vi troverete a soffocare le risate su autobus strapieni e ogni tanto fisserete il vuoto, presi dalla nostalgia dei vostri anni scolastici: allora il tizio iroso vi dirà a brutto muso “Che ti guardi?” e capirete che è ora di scendere.
CITAZIONE: “Qua, nel momento in cui il primo genitore si siede di fronte a me per commentare la pagella del primo quadrimestre, e mi ascolto dire prego, si accomodi, e lui o lei che dicono grazie, come sta, tutto bene?, io ho degli attimi di incredulità, mi pizzico le braccia, non mi capacito di questi modi e di come si preparano ad ascoltarmi, è un sogno che si realizza: finalmente qualcuno mi ha dato un pulpito, adesso io parlo e ho chi mi sente, in pratica mi sento pervadere da una specie di tracotanza pacifica, assaporo questo momento in cui sto per dare loro dei giudizi e dei consigli sul figlio o la figlia, ho davanti a me una famiglia, e posso scaricare addosso a loro tutte quelle cose che mi facevano scuotere la testa a Siracusa, dico: Tutto bene, grazie, e voi come state? E poi divento un misto di don Vito Corleone e Paolo Coelho.”
Flavia Capone